Il banchetto nell’antica Roma aveva anche una funzione sociale ed era un’occasione significativa per ostentare il potere economico e politico. In queste occasioni bisognava dare un senso di allegria e di lusso, talvolta addirittura di spreco. Dopo che i commensali si erano sistemati sui triclinia e gli schiavi avevano lavato loro le mani, il banchetto poteva iniziare. Il numero delle portate (fercula) variava, da un minimo di tre fino ad arrivare addirittura a sei nella celebre cena di Trimalcione descritta nel Satyricon di Petronio. La prima portata era costituita dalla gustatio, un antipasto di cibi appetitosi ma leggeri, come, per esempio, insalate miste di vegetali crudi accompagnati da salse acri e piccanti. In questo modo si aiutava il sistema digestivo ad assumere gli altri alimenti. Un posto particolare era riservato all’uovo, che non doveva mai mancare. Seguivano varie deliziose portate di carne e pesce, realizzate in maniera scenografica, il tutto innaffiato dal mulsum, una bevanda composta da vino e miele. Con la secunda mensa venivano serviti frutti, dolci e cibi salati e si beveva copiosamente. Fra la prima e la seconda cena venivano collocate sulla tavola le statuette dei Lari, le divinità protettrici del benessere della casa, e, contemporaneamente, si pronunciavano parole di buon augurio. Spesso, per rallegrare l’atmosfera, si ricorreva alla presenza di un comico incaricato di creare una situazione vivace con battute di spirito e racconti di storielle. Durante la commissatio, poi, i commensali facevano una bevuta generale di vino che era sostanzialmente una sorta di dopo-cena al quale potevano partecipare anche ospiti non presenti al banchetto. L’assunzione del vino era sotto lo scrupoloso controllo del magister bibendi al quale spettava anche determinare in quale proporzione dovesse esser mescolata l’acqua al vino e stabilire il numero di coppe che i convitati avrebbero dovuto bere. L’atmosfera era decorosa o volgare a seconda delle regole imposte dallo stesso magister bibendi. Quando si veniva invitati a questi banchetti si dovevano indossare una tunica chiamata vestis coenatoria e delle calzature comode, le soleae. Era anche buona norma portarsi un tovagliolo, chiamato mappa, usato per evitare di sporcarsi e per portare via del cibo a fine serata. La tovaglia, chiamata mantele, fece la sua comparsa soltanto nel I secolo d.C. I Romani non utilizzavano le posate per mangiare, ma le mani. Si usavano solo i cucchiai; i coltelli, invece, erano utilizzati unicamente dagli schiavi per tagliare le portate in piccoli pezzi prima di servirle. C’erano poi due tipologie di piatti: quelli usati per la presentazione delle vivande e quelli destinati al consumo dei cibi. I primi erano generalmente grandi, di forma ovale o rettangolare; i secondi erano molto più semplici. I bicchieri, infine, avevano diverse forme: quello di maggior utilizzo era la phiala, una sorta di coppa priva di manici, mentre quello più semplice era chiamato poculum ed era un calice privo di piede. Fondamentale era anche l’arte della conversazione. È lo stesso Orazio a raccontarci la fine di un banchetto nella sua casa di campagna: “E così nasce la conversazione, non sulle ville o i palazzi degli altri, non su Lèpore, se è un buon danzatore o no, ma discutiamo di ciò che più ci riguarda e che è male ignorare: se siano le ricchezze o le virtù a rendere felici gli uomini; che cosa, tra l’interesse e il dovere, c’induca all’amicizia; quale sia l’essenza del bene e quale la sua perfezione” (Sat. II, 6, 70-76).
Quando già tutti s’erano collocati a giacere, eccetto Trimalchione che, contro l’uso, s’era riserbato il posto d’onore, fu recato a tavola un lauto antipasto. Su di un vassoio c’era un asinello di bronzo di Corinto, con una bisaccia che conteneva olive bianche da una parte e nere dall’altra. Sul dorso dell’asinello due tondini portavano inciso nei margini il nome di Trimalchione e il peso dell’argento. Piccoli ponti saldati tra loro reggevan dei ghiri in salsa di miele e papavero. C’erano anche delle salsicce bollenti su una gratella d’argento; e sotto c’eran prugne di Siria con chicchi di melagrana… Vien recato dinanzi a noi, che stavamo ancora mangiando gli antipasti, un vassoio con una cesta, dove una gallina di legno stava appollaiata con l’ali aperte, come fanno quando covano. Poi s’accostaron due servi e, allo strepito incessante della musica, si misero a frugar nella paglia; e cavatene uova di pavone, le distribuirono ai convitati. Trimalchione girò il viso su questa scena, e disse: “Amici! Ho comandato che sotto la gallina si ponessero uova di pavone; ma temo in fede mia che non sian già gallate: a ogni modo vediamo se si possono ancora sorbire”. Afferrammo due cucchiai che non pesavano meno di mezza libbra, e rompemmo le uova imitate con pasta di farina. Io quasi buttavo il mio, perché mi parve che il pulcino vi bucicasse, quando un vecchio parassito mi sussurrò: “Qui ci dev’esser del buono”; e infatti cercando con la mano nel guscio, rinvenni un beccafico assai grasso in salsa di tuorli d’uova col pepe… Quando d’un tratto ricomincia la musica, e un coro di schiavi cantando porta via l’antipasto… Succedettero due Etiopi chiomati, con otri leggeri, come quelli che spargono la sabbia nell’anfiteatro, e diedero vino alle mani; acqua non ne venne offerta… Subito comparvero anfore di cristallo sigillate con diligenza, al cui collo erano appesi cartelli con questa scritta: “Falerno Opimiano d’anni cento”… Tenne dietro una portata non così grande come ce l’aspettavamo, ma la cui novità richiamò gli sguardi di tutti. Un vassoio rotondo recava in giro i dodici segni dello Zodiaco, su ciascuno dei quali lo scalco aveva disposta una vivanda conveniente al soggetto: sull’Ariete ceci arietini, sul Toro un tocco di bue, sui Gemelli rognoni e un par di testicoli, sul Cancro una corona, sul Leone fichi d’Affrica, sulla Vergine una vulva di troia sterile, sulla Libbra una stadera con un pasticcio da una parte e una schiacciata dall’altra, sullo Scorpione una pesciolino di mare, sul Sagittario un gallo selvatico, sul Capricorno un’aragosta, sull’Acquario un’oca, sui Pesci un par di triglie. Nel centro, poi, una zolla di terra con tutte l’erbe recava un favo di miele. Un valletto Egizio serviva il pane in un fornello d’argento… Seguiva un gran vassoio, dov’era steso un cinghiale smisurato, con un berretto in testa; e dalle sue zanne pendevan due sportine intessute di foglie di palma e ricolme l’una di datteri carioti, l’altra di quelli tebaici. Torno torno dei porcellini di pasta frolla, quasi attaccati alle poppe, indicavan ch’era femmina; e questi fu anche permesso di portarli via. Ma, per tagliare il cinghiale, invece di quel Trincia che aveva scalcato i polli, venne un omaccione barbuto, con le gambe attorte di cinghie e una mantellina di damasco. Brandito un coltello da caccia, spaccò il fianco al cinghiale; e una frotta di tordi s’alzò a volo dalla ferita. Stavan pronti gli uccellatori con le canne, e in un attimo riacchiapparono i tordi, che svolazzavano attorno al triclinio. Poi, avendo Trimalchione ordinato che ne fosse servito uno ad ognuno, soggiunse: “Guardate ora che ghianda delicata s’è mangiata quel porco selvatico”. Senza por tempo in mezzo, i valletti s’accostarono alle sporte, che pendevano dalle zanne, e distribuirono in egual misura tra i convitati i datteri carioti e tebaici.
(Traduzione di G.A. Cesareo e N. Terzaghi)
Testo in latino e traduzione della cena di Trimalchione dal “Satyricon” di Petronio da “Il romanzo antico greco e latino” Sansone Editore 1993 traduzione di G.A. Cesareo e N. Terzaghi
Petronio, Satyricon XXXI-XL
Allata est tamen gustatio valde lauta; nam iam omnes discubuerant praeter ipsum Trimachionem, cui locus novo more primus servabatur. Ceterum in promulsidari asellus erat Corinthius cum bisaccio positus, qui habebat olivas in altera parte albas, in altera nigras. Tegebant asellum duae lances, in quarum marginibus nomen Trimalchionis inscriptum erat et argenti pondus. Ponticuli etiam ferruminati sustinebant glires melle ac papavere sparsos. Fuerunt et tomacula supra craticulam argenteam ferventia posita et infra craticulam Syriaca pruna cum granis Punici mali. […] Gustantibus adhuc nobis repositorium allatum est cum corbe, in quo gallina erat lignea patentibus in orbem alis, quales esse solent quae incubant ova. Accessere continuo duo servi et symphonia strepente scrutari paleam coeperunt, erutaque subinde pavonina ova divisere convivis. Convertit ad hanc scenam Trimalchio vultum et: "Amici, ait, pavonis ova gallinae iussi supponi. Et mehercules timeo ne iam concepti sint. Temptemus tamen, si adhuc sorbilia sunt." Accipimus nos cochlearia non minus selibras pendentia, ovaque ex farina pingui figurata pertundimus. Ego quidem paene proieci partem meam, nam videbatur mihi iam in pullum coisse. Deinde ut audivi veterem convivam: "Hic nescio quid boni debet esse", persecutus putamen manu, pinguissimam ficedulam inveni piperato vitello circumdatam. […] Subito signum symphonia datur et gustatoria pariter a choro cantante rapiuntur. Ceterum inter tumultum cum forte paropsis excidisset et puer iacentem sustulisset, animadvertit Trimalchio colaphisque obiurgari puerum ac proicere rursus paropsidem iussit. Insecutus est supellecticarius argentumque inter reliqua purgamenta scopis coepit everrere. Subinde intraverunt duo Aethiopes capillati cum pusillis utribus, quales solent esse qui harenam in amphitheatro spargunt, vinumque dederunt in manus; aquam enim nemo porrexit. […] Statim allatae sunt amphorae vitreae diligenter gypsatae, quarum in cervicibus pittacia erant affixa cum hoc titulo: FALERNVM OPIMIANVM ANNORVM CENTVM. […] Ferculum est insecutum plane non pro expectatione magnum, novitas tamen omnium convertit oculos. Rotundum enim repositorium duodecim habebat signa in orbe disposita, super quae proprium convenientemque materiae structor imposuerat cibum: super arietem cicer arietinum, super taurum bubulae frustum, super geminos testiculos ac rienes, super cancrum coronam, super leonem ficum Africanam, super virginem steriliculam, super libram stateram in cuius altera parte scriblita erat, in altera placenta, super scorpionem pisciculum marinum, super sagittarium oclopetam, super capricornum locustam marinam, super aquarium anserem, super pisces duos mullos. In medio autem caespes cum herbis excisus favum sustinebat. Circumferebat Aegyptius puer clibano argenteo panem. […] Secutum est hos repositorium, in quo positus erat primae magnitudinis aper, et quidem pilleatus, e cuius dentibus sportellae dependebant duae palmulis textae, altera caryatis, altera thebaicis repleta. Circa autem minores porcelli ex coptoplacentis facti, quasi uberibus imminerent, scrofam esse positam significabant. Et hi quidem apophoreti fuerunt.
Ceterum ad scindendum aprum non ille Carpus accessit, qui altilia laceraverat, sed barbatus ingens, fasciis cruralibus alligatus et alicula subornatus polymita, strictoque venatorio cultro latus apri vehementer percussit, ex cuius plaga turdi evolaverunt. Parati aucupes cum harundinibus fuerunt, et eos circa triclinium volitantes momento exceperunt. Inde cum suum cuique iussisset referri, Trimalchio adiecit: "Etiam videte, quam porcus ille silvaticus lotam comederit glandem." Statim pueri ad sportellas accesserunt quae pendebant e dentibus, thebaicasque et caryatas ad numerum divisere cenantibus.
Testo in latino e traduzione della cena di Trimalchione dal “Satyricon” di Petronio da “Il romanzo antico greco e latino” Sansone Editore 1993 traduzione di G.A. Cesareo e N. Terzaghi