L’allevamento dei pesci

Emblema musivo pavimentale con natura morta con pesci e anatre dalla Casa del Granduca di Toscana a Pompei (Napoli, Museo Archeologico Nazionale)

Le grandi conquiste territoriali determinarono mutamenti anche nelle abitudini culinarie dei Romani. Dal II-I sec. a.C., infatti, il consumo di pesce, fino ad allora raro e limitato ai centri costieri, assunse un ruolo importante nell’alimentazione e nell’economia. In epoca imperiale, tra il I e il III secolo d. C., l’allevamento ittico in vasche all’interno delle ville divenne un vero e proprio status symbol, ovvero un modo per ostentare prestigio e ricchezza, essendo costosissime sia la realizzazione sia la manutenzione di piscinae o vivaria. I Romani costruirono lungo le coste numerose vasche private, insieme ad altri tipi di impianti quali porti, stagni marittimi, peschiere.

Le vasche per l’itticoltura erano di due tipi: quelle di acqua dolce (piscinae dulces) e di acqua salata (piscinae salsae o maritimae). La gestione delle prime era affidata a gente comune e i pesci venivano venduti al mercato; le seconde erano proprietà di personaggi altolocati e, oltre a rappresentare uno status symbol, erano anche fonte di guadagno.

La pratica dell’acquacoltura era ben nota sin dagli inizi del I sec. a.C., quando Sergio Orata creò i primi allevamenti di ostriche nella sua villa di Baia nel golfo di Napoli. In seguito i Romani popolarono di pesci le piscine artificiali e anche i laghi naturali. Le specie più apprezzate erano l’anguilla e la triglia di mare, il tonno e la murena; maggiormente pregiate erano la sogliola, l’orata e il rombo. Anche i frutti di mare rappresentavano una prelibatezza e venivano consumati sia crudi che cotti.

I Romani, avendo intuito l’importanza di mantenere l’acqua in costante movimento per favorire un’adeguata ossigenazione, misero in atto vari accorgimenti idraulici, collegando, ad esempio, le piscinae al mare tramite cunicoli sotterranei oppure costruendo dighe per sfruttare il ricircolo delle maree. Lucullo fece addirittura scavare un tunnel sotto una montagna per collegare direttamente i suoi allevamenti con il mare.

Anche se nel mondo antico era considerata molto stretta la relazione tra animali marini e divinità, i pesci venivano trattati come animali domestici e considerati sotto molti aspetti simili agli uomini. Così venivano dati loro nomi e venivano ornati con gioielli; i proprietari se ne prendevano cura in caso di malattia e ne piangevano persino la morte. Proprio alla stregua di animali domestici, le murene, come racconta Marziale in un suo epigramma (10, 30, 21-24), erano solite nuotare incontro al loro padrone e le triglie, udendone il nome, emergevano dall’acqua per rispondere. Plinio osserva (Nat. Hist. 10,193) che i pesci uscivano fuori dall’acqua uno ad uno, udendo il richiamo del padrone.

Particolare con pesce dal mosaico pavimentale di un’antica casa romana a Merida (Merida, Casa dell’Anfiteatro)

Addirittura divenne consuetudine per le famiglie facoltose derivare i cognomina dai nomi dei pesci che allevavano nelle piscine delle loro ville. Per la gens dei Licinii il cognome Murena potrebbe essere legato proprio all’allevamento di murene; Sergio Orata invece, come riporta Macrobio (Saturnalia 3, 15, 3), avrebbe mutuato il soprannome dal pesce, l’orata, di cui era ghiottissimo.

Il primo allevatore di murene fu Caio Irro che, in occasione dei trionfi di Cesare, fornì ben 6000 esemplari. Le murene, animali solitamente innocui, il cui morso, per quanto tossico, non mette in pericolo di vita, furono di gran lunga la specie favorita, tanto che gli impianti per il loro allevamento avevano il nome di murenai. Per questa specie era raccomandata la costruzione di vasche con ripari, onde ricreare l’ambiente marino naturale e, data l’innata voracità, si raccomandava di non mettere le murene a contatto con altri pesci.

Il cosiddetto “edificio ellittico”, ambiente da interpretarsi, probabilmente, come vasca di allevamento per i pesci (Foto Liceo Gullace)

 

Sitografia