Giardini e ars Topiaria

Giardino della Villa di Orazio (Foto Liceo Gullace)

I Romani chiamavano hortus il campo di piccole dimensioni, nel quale i contadini coltivavano i prodotti necessari alla propria sussistenza. Quando fra l’epoca tardo-repubblicana e quella imperiale comparvero i primi giardini all’interno delle abitazioni, per definire le varie parti, ognuna destinata a colture specifiche, si indicò con il termine hortus lo spazio riservato agli ortaggi e alle piante utili a fini alimentari e curativi, mentre quello che ospitava le piante ornamentali fu chiamato viridarium. Talvolta era presente anche il frutteto o pomarium.

I giardini romani svolgevano una funzione sia pratica sia decorativa. Si sviluppò, infatti, sin dal II sec. a.C. l’ars topiaria, detta anche opus topiarium, ovvero l’arte di creare composizioni vegetali e floreali utilizzando numerosi tipi di piante. I cespugli venivano potati in maniera da ottenere soprattutto figure geometriche, e ciò è indicativo della meticolosità con la quale i Romani si occupavano degli spazi verdi a loro molto graditi. L’arte del giardiniere (topiarius) consisteva non solo nella cura generale del giardino, ma anche e soprattutto nella composizione “paesaggistica” dei differenti elementi che lo costituivano (viali, aiuole, statue, fontane etc.).

Per l’ars topiaria si sceglievano piante adatte a frequenti potature, nonché alla messa in opera di sostegni e impalcature utili per mantenere nel tempo le forme desiderate. Le specie sempreverdi più amate comprendevano l’alloro, il cipresso, il tasso e il ligustrum. Le piante a prevalente scopo ornamentale si dividevano in arbores silvestres e arbores urbanae; tra le prime rientravano il castagno, il leccio, il pioppo, la quercia e il pino, tra le seconde la palma, l’olivo, il pino fruttifero, il tiglio e il cipresso. Alcune piante avevano valenza decorativa o funzionale molto specifica: ad esempio, il cipresso serviva anche a riparare dal vento e in alcuni giardini si lasciava crescere della vegetazione spontanea onde produrre un netto contrasto con le prevalenti linee geometriche.

Godevano di grande favore anche piante importate da località diverse che davano la possibilità di ottenere ambienti originali o, addirittura, esotici.

Oltre agli alberi erano assai apprezzati i cespugli e le essenze aromatiche. Le siepi venivano usate sia come decoro, sia per delimitare vialetti o recingere i settori del giardino. Erano a ciò deputati il mirto sacro a Venere, l’asfodelo, l’edera, l’alloro sacro ad Apollo e il rosmarino, elemento indispensabile in cucina. Non mancavano, inoltre, le colture a scopo medicinale: la zucca, considerata un rimedio contro il mal di denti, l’ortica per la produzione di filtri afrodisiaci, l’alloro come digestivo, la rucola, la mandragola quale anestetico.

A differenza delle piante, i fiori erano scarsamente coltivati. I più ricorrenti erano la rosa, posta a decorare colonne e statue, il giglio sacro a Giunone, perché si narrava che fosse nato da una goccia di latte caduta dal seno della dea in atto di allattare, la viola presente durante i culti funebri, i garofani e i narcisi.

Per facilitare la realizzazione di creazioni floreali si impiegavano i vasi per margotta, le cosiddette ollae foratae o pertusae, pretta invenzione dei Romani. Si riconoscono facilmente, poiché sono provviste di fori per far uscire le radici ed hanno pareti molto sottili (spessore variabile dai 0,5 ai 5,5 mm) che consentivano alle radici di rompere il vaso, una volta interrato. Un esemplare è nel Museo Oraziano di Licenza.

Esemplari di olle forate esposte presso il Museo Oraziano (Licenza, Museo Oraziano) (Foto Liceo Gullace)

In conclusione, dagli scritti di Catone, Plinio il Vecchio e Plinio il Giovane si ricava come il giardino, con il passare del tempo, non ebbe più solo fini produttivi, ma divenne anche per l’aristocrazia romana un luogo di piacere e ozio, dove poter accogliere gli ospiti, conversare, o passeggiare in solitudine.